Ci sono certe cose nella vita che pur non rientrando nel novero di quelle esperienze epocali che segnano un’esistenza, riescono comunque a lasciare una traccia probabilmente indelebile.
Nello specifico, soprattutto per l’attuale generazione di trentenni, alcuni ricordi sono legati al mondo dei videogiochi, e questo per tanti motivi. Sarà forse che da ragazzi eravamo i testimoni degli albori di quel mondo dell’informatica che oggi, più che mai, scandisce il quotidiano. Sarà che le storie brillanti di alcuni titoli di un epoca remota, combinati con la effervescente fantasia di quasi adolescenti, donavano emozioni pari a quelle che i racconti di epica scatenavano nelle platee dell’antichità. Fatto sta che l’aver vissuto simili esperienze, oggi ci porta a dire, con una punta di orgoglio: “Si, c’ero anche io!”.
E il dire “c’ero anche io” è forse l’espressione che meglio riesce a sintetizzare quel periodo fatto di amici, avventure estive, partite di pallone o subbuteo e VIDEOGIOCHI, avveniristici veicoli capaci di trasportare le giovani menti in un mondo parallelo, governato da regole diverse, tutto da sperimentare.
E mentre i videogames “casalinghi” segnavano il passaggio dai titoli da sala giochi a quelli per l’home entertainment, videro la luce titoli che furono vere pietre miliari di un periodo lontano, fra questi il mito assoluto fu la saga di Monkey Island. Nessuno gioco su pc, infatti, è stato capace di diventare un cult di una portate simile, tanto che, a distanza di quasi 20 anni, l’interessa non sembra scemare.
Un tempo il pronunciare parole del tipo: “C’è una scimmia a tre teste dietro di te!” sarebbe stato sufficiente per far capire di essere un “membro eletto” del clan dei “videogiocatori”, quantomeno fra i gamers che adesso hanno minimo venticinque anni.
Oggi, probabilmente, la stessa frase ci condurrebbe, nella più rosea delle ipotesi, sul lettino di un bravo psicologo.
Ma cos’è la saga Monkey Island?
Facile. Era un videogame prodotto dalla Lucas Arts (nota allora come Lucas Film Games), composto di quattro episodi, il primo dei quali uscì nel lontano 1990 con il titolo di “The secret of Monkey Island”. La nascita di questo capolavoro la si deve alla creatività di Ron Gilbert, capo del progetto e padre delle prime due storie, che volutamente si ispirò alla nota giostra di Disneyland “I Pirati dei Caraibi”, così come ha fato di recente il produttore cinematografico Jerry Bruckheimer nella trilogia sbanca-botteghino che porta proprio lo stesso nome dell’attrazione del famoso parco dei divertimenti. Inutile sottolineare che le dinamiche della storia, fra gioco e film, sono in più circostanze simili (nella pellicola cammei sono disseminati qua e là).
La trama aveva come protagonista l’indimenticabile Guybrush Threepwood, giovanotto intraprendente ma un po’ impacciato, con un unico grande sogno: diventare un temibile pirata. Gli eventi di cui erano composti i vari episodi, narravano quindi le avventure di Guybrush che, per raggiungere il suo traguardo, si trovava a fronteggiare pericoli di ogni tipo, dai pirati fantasma guidati dal leggendario LeChuck (nemesi del protagonista), passando per i temibili cannibali che vivono su isole inesplorate, fino ai duelli di spada contro altri bucanieri, il cui esito dipendeva da ridicole offese e relative risposte fra i duellanti.
Ovviamente nodo della storia era l’aspetto romantico legato alla figura di Elaine, piratesca governatrice, che faceva perdere la testa al nostro eroe disposto a tutto pur di sposarla.
Teatro delle vicende erano i Caraibi intorno ad un ipotetico 1700, anche se gli aspetti temporali e geografici contavano poco. La saga, infatti, è plasmata completamente su di un umorismo sfrenato, senza controllo di sorta, che rende spesso la scenografia volutamente anacronistica ed illogica per il puro gusto di divertire il giocatore, riuscendoci alla perfezione.
La storia si è evoluta nei quattro episodi, non solo come trama, ma anche come tecnica di programmazione, soprattutto se si considera che il quarto gioco (“Fuga da Monkey Island”) è uscito nel 2000, a ben dieci anni di distanza dal primo (il secondo fu “Monkey Island 2: LeChuck's Revenge-1991” e il terzo “The Curse of Monkey Island-1997”).
Purtroppo, nello specifico, si osserva nell’ultimo capitolo, rispetto ai primi titoli, una attenzione inadeguata verso tutti quegli elementi, grafica (per la prima volta in 3D) e sonoro inclusi, così particolari che avevano reso straordinari i capostipiti, portando ad un complessivo imbarbarimento del prodotto finale.
La vera gloria per “l’isola delle scimmie” è rappresentata, infatti, dai primi due titoli (già il terzo, pur molto bello, non è della stessa fatta dei predecessori) ancora immersi in quel brodo primordiale in cui, una grafica colorata ed un suono divertente sono più che sufficienti, se non perfetti, se accompagnati ad una trama avvincente e profonda in cui la fantasia trova una superba collocazione.
Ed è proprio la fantasia che ha fortemente condizionato il successo di quei giochi. Il plot narrativo, invero, si districa sulla base di infiniti enigmi cui il giocatore deve dare risposta. Erano i tempi delle avventure grafiche (rigorosamente in 2D), genere oggi quasi del tutto scomparso, in cui l’interazione con il mondo videoludico avveniva grazie alle cosiddette interfacce “punta e clicca”.
Un genere come detto tramontato, ma che, per più di un decennio, ha rappresentato il paradigma del videogioco e in questo quadro, Monkey Island, è stato il gioco di tendenza che ha condizionato quel paradigma.
Di certo il ricordo che di questo videogioco oggigiorno ancora si serba è il risultato anche dell’osmosi che si creò fra la saga e i videogiocatori che vi si cimentavano, tutto ciò in un periodo, quello della giovinezza, i cui ricordi sembrano immersi in una aura di magia e serenità. Questo, tuttavia, non sminuisce il reale valore della quadrilogia, ma anzi ne sottolinea un merito: quello di aver avuto la capacità di lasciare un segno in chi, forse per motivi anagrafici, ma non solo, era ben disposto a lasciarsi conquistare, come forse solo un buon libro sa fare. Ed, infatti, il muoversi fra gli eventi di Monkey Island ancora oggi regala emozioni reali simili a quelle prodotte dalla lettura di un romanzo che fra le pieghe dei fatti raccontati porta per mano il lettore in un posto unico e, forse, irriproducibile nella realtà.
Sia chiaro che non si parla di una fuga dal mondo contingente, ma di un modo per renderlo ancor più speciale.
Alfredo Tommaselli
www.monkeyislandsite.it